Un passato terribile da quale ne è uscito ma alcune ferite non si curano mai: la guerra segna per sempre la vita delle persone e Bruce Grobbelaar non fa eccezione. L’ex portiere del Liverpool fu costretto nel 1975, a 18 anni appena compiuti, a prestare servizio per 11 mesi nell’esercito del suo Paese natale (l’attuale Zimbabwe) durante la guerra civile in Rhodesia. Fu arruolato nell’esercito rhodesiano come scout, addetto a seguire le tracce dei guerriglieri antigovernativi di Robert Mugabe e fu costretto quindi a ucciderne parecchi per salvare se stesso.
In particolare, il ricordo del primo uomo ucciso raccontato in un’intervista al Guardian lo tormenta ancora: “Era il crepuscolo e quando il sole inizia ad affossarsi, vedi le ombre tra i cespugli. Non riesci a riconoscere granché finché non vedi il bianco degli occhi dei soldati. O vivi tu o loro. Spari, vai a terra e c’è uno scambio di proiettili. Poi senti delle voci che ti dicono ‘Caporale, mi hanno colpito!’ e fai per zittirle, altrimenti vieni ucciso tu e gli altri. Quando cessa il fuoco vedi corpi a terra dappertutto. La prima volta tutto quello che hai nello stomaco ti risale fino alla bocca!”, ha detto dopo un lungo respiro.
Il conto delle persone morte per colpa sua si è perso: “Quanti ne ho uccisi? Non posso dirlo. Ho ucciso tante persone e per questo ho sempre vissuto la mia vita giorno per giorno. Posso solo pentirmi di quello che ho fatto, ma non posso cambiare il mio passato”. A differenza sua, però, c’era chi viveva la guerra come una questione personale: “Un mio ex compagno tagliava le orecchie a ogni uomo che ammazzava e le metteva in un vaso… e aveva diversi vasi. La sua famiglia fu torturata e voleva vendetta”.
Grobbelaar ha rischiato di finire in depressione, ma alcuni suoi coetanei non ce la fecero: non potevano e non volevano andare avanti gli altri 6 mesi richiesti dai capi, così decisero di suicidarsi: “Si uccisero simultaneamente in due bagni vicini all’accampamento”.
A guerra finita (dicembre 1979) arrivò la fuga verso il Canada, le partite con i Vancouver Whitecaps e la chiamata al Crewe Alexandra, poi quella di Bob Paisley al Liverpool e la svolta definitiva con le 6 Premiere la leggendaria Champions League a Roma nel 1984 famosa per la sua danza ipnotica ai rigori. E quindi la possibilità di lasciarsi alle spalle gli orrori: “La tifoseria mi chiamava Jungleman, uomo della giungla. Dicevano che non ero bianco, che ero un nero con la pelle bianca. Il calcio mi ha davvero salvato dalla depressione e ha allontanato i pensieri oscuri della guerra”.