Di Emilio Scibona
Il suo nome è legato per sempre alla storica qualificazione agli Europei del 2016 dell’Albania, apice di una carriera nella quale non sono mancate le imprese calcistiche. Gianni De Biasi racconta la sua storia in panchina ai microfoni di Globalsport, nella prima parte di questa lunga intervista.
La sua storia di allenatore è quella di un tecnico che si è esaltato quando si è trovato a dover guidare le sue squadre a compiere delle vere imprese sportive. C’è una ragione particolare?
Io credo ci siano una serie di coincidenze o congiunzioni astrali nel trovare le persone giuste ma anche una mia qualità nel saperle valorizzare. Fondamentalmente è importante fare leva sulle risorse delle persone, valorizzare le qualità positive delle persone con cui lavoro e che dirigo.
L’apice della gavetta in provincia lei l’ha raggiunto a Modena, che in tre anni e mezzo ha portato dalla C1 alla Serie A, ottenendo nel suo ultimo anno una salvezza miracolosa per come si era messa la classifica. Che ricordo ha di quell’esperienza e quanto è stata importante per la sua carriera?
È stata sicuramente un’esperienza esaltante in una piazza che non vedeva la B e la A da anni. Era un’ambiente demoralizzato. Quando sono arrivato al primo anno siamo riusciti a salvare la squadra e poi abbiamo progettato il gruppo con il quale abbiamo completato la scalata dalla C1 alla A. Fu una soddisfazione enorme
Un altro grande traguardo fu quello raggiunto alla guida del rinato Torino. Con una squadra costruita in dieci giorni e puntellata solo a gennaio sfiorò la promozione diretta raggiungendola successivamente ai play-off con una rimonta nella doppia finale contro il Mantova, che sembrava persa. Quanto fu gratificante quel successo e cosa le ha lasciato l’esperienza in granata?
La storia del Torino meriterebbe un capitolo a parte perché arrivo in una piazza che è appena stata cancellata per debiti. Cairo la prende e mi contatta, troviamo l’accordo e riusciamo a salire con una squadra costruita a mercato chiuso vincendo lo spareggio davanti a 65 mila spettatori al “Delle Alpi”: scene di giubilo veramente d’altri tempi. Nonostante questo, a tre giorni dall’inizio del campionato di A mi manda via per Zaccheroni, salvo poi richiamarmi verso la fine del campionato. Salvo la squadra vengo esonerato di nuovo, stavolta per Novellino. Mentre ero al Levante mi richiama ancora una volta il presidente e la situazione è ancora più disperata dell’anno prima con sei partite da giocare e Inter e Roma, le prime due della classifica da affrontare a distanza ravvicinata. Ci salviamo ancora. Vengo finalmente riconfermato ma successivamente vengo esonerato nonostante i numeri fossero dalla mia parte. Purtroppo e semplicemente il Torino di allora a livello di esperienza e competenza non era il Torino di oggi. Se avessero ascoltato i miei suggerimenti forse la storia sarebbe andata in modo diverso.
La parentesi più importante resta però quella vissuta con l’Albania che ha cominciato ad allenare nel 2012, quando era 73esima nel Ranking Fifa e ha lasciato nel 2017 dopo averne fatto una squadra competitiva capace persino di qualificarsi per gli Europei. Quando ha accettato l’incarico pensava che sarebbe riuscito a ottenere questi risultati?
Avevo una voglia di rivalsa dopo l’esperienza all’Udinese, che fu difficile perché ereditai una situazione pesante, riuscii a qualificare la squadra in Semifinale di Coppa Italia ma fui comunque esonerato. Da lì dissi in Italia non voglio più allenare perché credo sia ingiusto essere trattati in questo modo. A quel punto mi chiamò l’Albania, inizialmente rifiutai, poi hanno dimostrato di volermi. Ho chiarito alcuni aspetti di natura gestionale, poi ho avuto carta bianca e fiducia. Io di mio ho la presunzione e la convinzione di saper incidere nella testa delle persone, di convincere che è possibile raggiungere un sogno anche quelle persone poco inclini a sognare. La fortuna più grande è la possibilità di decidere chi chiamare: questa è la base del lavoro del c.t. Hai una libertà di scelta che nei club ti puoi sognare perché lì sei vincolato dalle logiche di contratto e ti devi sopportare anche dei giocatori che non danno il massimo. In nazionale puoi lavorare in modo diverso, ho responsabilizzato i miei giocatori, insegnandoli a ragionare come “noi” e non come “io” creando la dimensione di squadra.
Gli Europei del 2016, apice di quel percorso, si conclusero dopo una fase a gironi giocata molto bene in cui l’eliminazione arrivò solamente per la differenza reti. Alla fine, fu più il dispiacere per come è finita o la soddisfazione per essere arrivato ad un soffio da una nuova pagina di storia?
Per me devo dire che fu altrettanto importante la qualificazione ai Mondiali 2014, nel girone di andata siamo secondi in classifica e possiamo competere per gli spareggi, solo che all’epoca per loro era un risultato talmente importante che si sono un po’ crogiolati. Il ritorno andò male ma da quel momento ho capito che dovevo lavorare sull’aspetto della convinzione. Sull’Europeo del 2016 è stata maggiore la soddisfazione perché nessuno pensava di poterci arrivare e ci siamo invece stati a pieno titolo. È stata una gioia per me per i miei ragazzi e per un’intera nazione.