Pizzul: "La semifinale contro l'Argentina nel 1990 fu la delusione più grande"

La storica voce della Rai è intervenuta ai nostri microfoni in una lunga intervista, nella quale ha ripercorso la sua storia da commentatore sportivo.

Pizzul: "La semifinale contro l'Argentina nel 1990 fu la delusione più grande"
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19 Febbraio 2020 - 15.18


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Di Emilio Scibona

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Tra le voci dello sport italiane è una di quelle che è rimasta più impressa nell’immaginario collettivo. Telecronista Rai dal 1970 al 2002, Bruno Pizzul ha raccontato con il suo inconfondibile timbro trentadue anni di calcio italiano. In questa lunga intervista rilasciata ai nostri microfoni ripercorriamo la sua carriera in cabina di commento.

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Lei comincia la sua carriera in Rai nel 1970, in un’epoca nella quale la tv non era ancora così centrale e in cui le voci che commentavano il calcio erano quelle di mostri sacri come Ameri, Ciotti, Martellini. Quanto ha influito il formarsi in questo contesto per fare di lei ciò che sarebbe diventato, ovvero la voce più iconica del calcio italiano?

Indubbiamente l’inserimento in un contesto che io non conoscevo e nel quale c’erano queste figure che erano “titolari di cattedra” è stato notevole anche in considerazione del fatto che mi hanno accolto e aiutato senza però farmi pesare la loro primogenitura di carattere lavorativo. Io d’altra parte ero digiuno di esperienza perché ero entrato da poco vincendo un concorso quasi per caso senza coltivare mai l’idea di diventare commentatore. Ho vinto questo concorso cui ho partecipato quasi controvoglia e da lì ho cominciato la mia avventura. Non ho però mai dato al mio lavoro una dimensione eroica, pur avendo la coscienza del fatto che questo fosse un lavoro che ti sottoponesse al giudizio della gente. Mi sono reso conto poi, con un pizzico forse di presunzione, che era più facile degli altri lavori fatti in precedenza.

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Lei è uno dei pochissimi giornalisti ad aver giocato a calcio a livelli professionistici. L’avere una conoscenza diretta del campo in che misura l’ha aiutata nel suo lavoro?

Indubbiamente mi ha aiutato per le esperienze maturate. Io ho giocato a calcio quasi sempre da riserva e questo è un modo di osservare la partita e il campo da un’ottica particolare. Il mio essere calciatore mi ha lasciato un pizzico di presunzione, perché credevo di sapere che ero in grado di poter fare tutto senza informarmi. Poi mi son reso conto che il calcio è in continua evoluzione e devi sempre stare sul pezzo. La conseguenza più grande è stata il non avermi indotto a valutazioni troppo severe nei confronti dei giocatori che sbagliavano qualche giocata, perché avendolo fatto e vissuto da dentro so bene quanto possa essere tutt’altro che semplice fare delle giocate che da fuori sembrano banali.

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Gli anni che l’hanno vista in cabina di commento sono stati gli anni ruggenti del calcio italiano a tutti i livelli. Cosa ha significato e significa per lei aver raccontato con la sua voce questo grande spaccato della storia sportiva italiana?

Direi che non c’è nulla di particolarmente miracolistico. Sono stato al posto giusto al momento giusto per poter raccontare le vittorie delle nostre squadre di club e per converso il fatto di aver commentato la nazionale senza che questa vincesse nulla. In molti mi chiedono se mi pesa il fatto di non aver mai urlato “Campioni del Mondo”. Io ho sempre avuto la sensazione di fare qualcosa importante per la notorietà che acquisivo ma ho sempre lasciato alle cose che raccontavo una passionalità non viscerale, senza mai lasciarmi travolgere dall’emozione.

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Qual è stato il momento più bello vissuto da commentatore?

Quando abbiamo cominciato a rivincere in campo internazionale con il Milan le Coppe dei Campioni sono stati dei momenti piacevoli, a partire dalla finale vinta dai rossoneri contro la Steaua Bucarest a Barcellona: vero che  per la situazione politica della Romania di allora era difficile che scendessero tanti tifosi della Steaua ma un’atmosfera così in uno stadio non l’avevo mai vista. Un altro ricordo bellissimo è quello della vittoria del Napoli in Coppa Uefa sullo Stoccarda. Stoccarda è la classica città tedesca seriosa e poco incline ad aprirsi: quel giorno però sembrava di essere a Fuorigrotta con i tanti tifosi napoletani che hanno colorato l’atmosfera un po’ grigia del posto.

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E quello più brutto?

Non nascondo che Corea del Sud-Italia non fu un gran momento. Quell’ottavo di finale fu caratterizzato da mille circostanze particolari, una su tutte l’arbitraggio Byron Moreno però quel giorno non potrò dimenticare l’errore di Vieri: se avesse segnato a quest’ora di Moreno probabilmente non ne avremmo sentito parlare più di tanto. Dico questo tanto per far  capire quanto giudizi, valutazioni ed entusiasmi siano labili. La semifinale del Mondiale del 1990 poi fu un momento particolare perché accadde l’unica cosa che dovevamo evitare nel momento in cui si stava organizzando la manifestazione ovvero di ritrovarci a giocare contro l’Argentina al Napoli. Si pensava che l’Argentina all’epoca campione del Mondo dovesse passare con tranquillità e invece si qualificò solamente tra le migliori terze. Ce la ritrovammo contro in un clima particolare: la presenza di Maradona a Napoli aveva spostato l’asse della simpatia. Fu una partita stregata perché finimmo per perdere per una serie di situazioni particolari, come il gol di Caniggia, uno che non segnava mai di testa. Non giocammo la finale e ciò mi dispiacque perché quella nazionale era più forte delle altre e meritava di vincere. Fu una delusione e io all’epoca cercai di indorare la pillola e cercai una chiave consolatoria. Quella ser il nostro regista De Pasquale aveva sistemato una serie di telecamere che spaziavano su Napoli, mostrando degli scorci favolosi: le luci di Mergellina, l’ombra del Vesuvio, il paesaggio del Golfo. Io dissi “Non faremo la finale ma questo spettacolo ci riconcilia con la vita”. Fui preso da uno slancio lirico che non fu gradito da tutti.

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Rispetto ai suoi tempi la narrazione delle partite è totalmente cambiata e le nuove generazioni di telecronisti hanno uno stile quasi opposto al suo. Le piace il modo in cui si racconta il calcio giocato oggi?

Indubbiamente è un modo che può essere affascinante ma qualche volta si ha la sensazione che ci sia un pizzico di esagerazione. Ricordo ai miei esordi quando noi facevamo le telecronache da soli e ci accusavano di parlare troppo e che la tv fosse fatta per le parole e per le immagini: forse avevano ragione. Ricordando quei momenti finisco sempre per restare sorpreso perché oggi c’è questo sovraffollamento verbale che qualche volta possa sembrare eccessivo. Oggi i ragazzi sono preparatissimi e il commentatore ha una squadra con un’opinionista, due bordocampisti ed eventuali altre figure. C’è una proliferazione verbale che sa di abbondanza però bisogna riconoscere che sono preparatissimi sebbene alle volte si esageri con le definizioni. Si tratta di una moda che da qualche parte sta abbandonando. La tv tedesca ad esempio che faceva questo tipo di racconto televisivo da qualche tempo è tornata alla cronaca secca di uno solo: gli opinionisti commentano solo nel prepartita e nelle pause, durante il match si commenta solo la partita, in modo arido. Sapendo tante cose sei portato a dirle e questo non sempre va bene. I ragazzi di oggi sono comunque preparati e io ricordando il modo superficiale con cui preparavo le partite un po’ mi vergogno, per quanto vero che con i sistemi di comunicazione è molto facile prepararsi rispetto a ieri”.

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