Roberto Baggio, come se non avesse mai smesso

Il Divin Codino compie quest'oggi 53 anni. Non gioca più dal 2004 eppure il ricordo di ciò che ha fatto sul campo è talmente vivido da non poter mai sembrare qualcosa di vecchio.

Roberto Baggio, come se non avesse mai smesso
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18 Febbraio 2020 - 12.16


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Di Emilio Scibona

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A livello concettuale il passato è il tempo che ci precede. A livello esistenziale il passato è ciò in cui non ci riconosciamo più. Roberto Baggio in teoria dovrebbe appartenere alla dimensione esistenziale del passato, avendo smesso nel 2004.

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Eppure, difficilmente riusciamo a considerare il “Divin Codino” come qualcosa di superato e a vivere come di un’altra era le sue imprese sul campo. Anche se, come ben cantò Cremonini, da quando non gioca più non è più domenica.  
Talento fragile dal punto di vista fisico, forse in certi aspetti anche sotto il profilo mentale prima che imbeccasse i sentieri di Buddha, Baggio ha diviso solamente tra quelli che lo hanno allenato. Sacchi stimava il genio e disprezzava la sua scarsa inclinazione alla disciplina tattica; Capello non sapeva che farsene; Ulivieri lo mal tollerava forse perché non poteva accettare che né oscurasse la stella in panchina; Lippi non lo ha mai sopportato e basta.
Mai una parola buona dal tecnico viareggino, nemmeno quando gli salvò la panchina ai tempi dell’Inter, con una doppietta nello spareggio per la Champions League contro il Parma che ebbe un effetto paradossale: Lippi confermato, Baggio disoccupato. Una, sicuramente nemmeno la più importante delle tante imprese sul campo del “Divin Codino”.

Bella e precaria speranza in quel di Vicenza; gioia divenuta rabbia e dolore incomprimibile a Firenze che per il suo addio si sollevò in un tumulto che non si vedeva in città dai tempi dei Ciompi nel XIV secolo; uomo del rilancio di una Juventus che prima del suo arrivo sguazzava nella mediocrità del post Platini; luce purissima a Bologna; attore non protagonista in entrambe le sponde dei Navigli dove gli hanno sempre riconosciuto il talento ma non hanno mai avuto il coraggio di consegnargli il Palco della Scala già occupato da figure ingombranti. Profeta alla fine in un Brescia che dopo il suo addio non seppe più ritrovare la via.

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Felicità e illusione invece furono le emozioni della sua parentesi in azzurro: 56 presenze, 27 gol, 3 mondiali giocati, un quarto negatogli dal Trap che pure gli voleva tanto bene, un bagaglio di ricordi esaltanti e un solo squarcio, il rumore della traversa di Pasadena  nel 1994 in un mondiale quasi vinto da solo, che ha fatto male ma che nulla ha tolto e nulla mai potrà togliere alla sua grandezza sul campo.

Una grandezza che è riuscita nell’impresa di unire il disomogeneo panorama calcistico italiano, che emoziona ancora e che non si riesce proprio a considerare di un tempo che fu ma, almeno nel cuore, di un tempo che ancora è.

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